Prima di spiegarvi l’avanguardia di questa scoperta e la risonanza che avrà facciamo un salto nel passato, quando tutto è iniziato.
Nel 1953 Rosalind Franklin tramite la cristallografia a raggi X osserva per la prima volta la struttura a doppia elica del DNA, acido che al tempo era stato già individuato come fondamento ereditario presente in ogni vivente. L’esperimento della Franklin ha innescato una reazione a cascata di scoperte in campo scientifico, portando infine gli scienziati James Watson e Francis Crick a presentare la struttura del DNA, pubblicata in cinque articoli sulla rivista Nature.

Arriviamo agli anni Settanta, quando erano stati compresi sia il ruolo sia alcune funzioni del DNA all’interno dei viventi. Sorge però una domanda: si può modificare il codice genetico di un essere vivente e si possono quindi “curare” dei problemi, delle imperfezioni o perfino curare malattie genetiche dovute ad errori nel codice genetico? Quest’ultima istanza è molto importante poiché proprio in quegli anni si cominciavano ad osservare con curiosità alcune patologie (ad esempio l’anemia falciforme, il morbo di Alzheimer e casi di tumori ereditari) da attribuirsi ad errori o mutazioni del DNA, che all’epoca erano sfortunatamente sentenza di morte certa. Nonostante non ci fossero ancora cure per queste patologie, vanno menzionati il biochimico, vincitore di un premio Nobel, Paul Berg e il medico genetista Wayne Miller. Grazie, infatti, ai loro studi hanno permesso negli anni Ottanta di inaugurare la prima terapia genica, consapevoli che fosse rudimentale e che le generazioni future avrebbero sicuramente trovato una soluzione più efficace. Utilizzata solo nel 2000 per curare dei neonati che sarebbero comunque andati incontro a morte prematura, la terapia produsse risultati positivi solo su uno di essi, provocando scalpore e meraviglia nella comunità scientifica; purtroppo la stessa terapia è risultata fatale per tutti gli altri bambini inclusi nel trial clinico, che hanno sviluppato tumori dovuti a mutazioni del DNA. Questa sperimentazione, che può sembrare un tentativo azzardato per l’uomo di vincere sulla natura, ha in realtà condotto i ricercatori a due certezze: modificare o alterare il DNA ha degli effetti collaterali sullo stesso, poiché può produrre mutazioni; inoltre, inserendo un gene sano all’interno del codice genetico di un individuo per rimpiazzare quello malato, non è sicuro che quest’ultimo sparisca durante la copiatura del DNA.

Prima di continuare è doveroso fare una piccola digressione. Il DNA si rompe continuamente: quando ad esempio facciamo una radiografia, molte sezioni, attraversate dai raggi X, vengono rotte e separate. La grande capacità del nostro codice genetico è di riuscire a ricomporsi e a non perdere mai informazioni grazie al fatto che all’interno del nucleo delle cellule ci sono due copie del DNA; perciò quando una copia è danneggiata o ha un pezzo mancante, usa l’altra come stampo per ricostituire le informazioni mancanti, grazie ad enzimi come la DNA polimerasi o la primasi, entrambe impiegate nel meccanismo di copiatura del DNA. È qui che si capisce ciò detto prima, perché innestando un gene sano non si può avere la certezza che questo venga copiato proprio al posto della sezione che noi vogliamo cambiare.

Sulla base della straordinaria abilità del DNA, i ricercatori hanno capito infine che l’unico modo per intervenire sul codice genetico era tagliare la sezione di DNA contenente le informazioni che si vogliono cambiare. Dopo averlo tagliato quindi si inganna il DNA che, dovendosi ricomporre, ha bisogno di uno stampo, che sarà proprio il gene sano innestato da noi. Ma come farlo?
La risposta, tema di questo articolo, è valsa a Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier il Nobel per la chimica nel 2020, e in realtà è stata nascosta ai nostri occhi per milioni di anni.

Alcuni microrganismi milioni di anni fa hanno sviluppato un curioso metodo di difesa contro i virus. Questi ultimi sono parassiti e per sopravvivere hanno bisogno di strutture cellulari più complesse e complete che li aiutino a riprodursi. Quando attaccano, iniettano il loro codice genetico all’interno del microrganismo o della cellula, poiché hanno bisogno di un particolare tipo di organuli, i ribosomi, per poter tradurre le informazioni genetiche contenute nel loro codice in complessi proteici necessari alla loro riproduzione. Logicamente quindi in una coltura contenente 10 microrganismi, l’attacco di un solo virus dovrebbe riuscire a produrne altrettanti, uccidendo tutti e dieci gli organismi ospitanti. E invece non è così. Nel 2007 un’azienda americana produttrice di yogurt, la Danisco, pubblica un articolo dove grida alla scoperta di una resistenza sconosciuta di alcuni batteri, contenuti nei loro yogurt, agli attacchi virali. Avevano osservato l’azione dei CRISPR, chiamati così pochi anni dopo da un microbiologo spagnolo, Francisco Mojica, che, studiando il genoma di un batterio che prolifera in acque con un’alta concentrazione di sale, Haloferax Mediterranei, aveva osservato nel codice genetico di questo delle ripetizioni continue, a intervalli regolari, di una stessa sequenza palindroma, ovvero che se letta in senso inverso rimane immutata. In un articolo Mojica chiama questo fenomeno Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, ovvero CRISPR. Ma Mojica aveva capito che il segreto dei CRISPR erano le sequenze che si interspaziano tra loro. La domanda che quindi si è posto è: cosa sono gli “spaziatori”? Sono state fatte numerose indagini ed esperimenti e i ricercatori hanno notato che dopo l’attacco di un virus, il batterio sopravvissuto contenente i CRISPR conteneva un nuovo spaziatore mai visto prima, che era identico ad una sequenza di codice genetico del virus che l’aveva attaccato. Si è capito quindi che il batterio ricorda il suo aggressore copiando una parte del suo codice genetico nel proprio DNA, che si configura come spaziatore tra i CRISPR. Questo meccanismo di memoria permette ai batteri di rendersi immuni ai virus: è un sistema immunitario adattivo. Ma come riescono a copiare sul loro codice genetico una sequenza di quella del virus e a utilizzarla per eliminarlo?

È proprio la presenza dei CRISPR che permette al microrganismo di copiare una parte di codice genetico del virus, che in questo modo viene “memorizzata” nel DNA del batterio. Quella sequenza avrà la funzione di un “manifesto da ricercato”, poiché all’attacco del virus verrà copiata in RNA che servirà da fattore di attivazione di un particolare complesso proteico, chiamato CAS-9. Questa proteina, con all’interno lo stampo di RNA con le informazioni virali, attaccherà il DNA virale riconoscendo il ricercato e distruggendo le informazioni che ha iniettato il virus: in questo modo il batterio si difende da qualsiasi tipo di attacco virale, attivando ogni volta con l’RNA stampo una nuova CAS-9 che elimini l’invasore.

Ma perché tutto questo? I ricercatori non dovevano trovare un modo per curare le malattie genetiche o per agire sul codice genetico?
Con questa digressione sul sistema di difesa adattiva di alcuni microrganismi si sono enunciate invero le potenzialità del CRISPR: infatti le due vincitrici del Nobel per la chimica hanno capito che questo meccanismo poteva essere usato per ingannare il corpo umano. Sperimentalmente è stato provato che iniettando in una cellula due soluzioni, una contenente il complesso proteico CAS-9, l’altra contenente l’RNA stampo della sezione di DNA sano non contenente errori (ad esempio volendo rimuovere il codone AAC perché causa di una patologia o di un difetto, si inietta la CAS-9 attivata con il codone dell’RNA stampo UUG), si crea un vero e proprio anticorpo genetico che scorre lungo il DNA della cellula e non appena incontra la sequenza stampo del suo RNA, la rimuove. Questa è stata una scoperta senza precedenti, finalmente siamo approdati sull’inesplorata isola dell’editing genico. Purtroppo non è però ancora utilizzabile come terapia, se non in un trial clinico, in primo luogo perché non è ancora stata testata su un essere umano e inoltre perché, rimossa la sequenza malata, rimane comunque una percentuale di successo tra il 50 e l’80%, poiché non si è ancora trovato un meccanismo per inserire il gene sano esattamente in quel punto lungo il DNA lasciato vacante. Sicuramente però questa scoperta è stato un grande passo nell’ambito della medicina del futuro, portando la percentuale di successo della terapia a probabilità molto più alte dell’originale 2%.

Chi lo sa, magari tra un mese, un anno o cinque anni si affinerà la tecnica, rendendola sicura e utilizzabile per curare finalmente tutte quelle patologie finora mortali e intrattabili: la scienza è una continua sorpresa e il fascino della scoperta porterà sempre l’uomo a migliorarsi e a rendere la vita straordinaria.